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Ore 5.45, la solitudine (preziosa) del sabato mattina

Ore 5.45. Sabato. Leggo il giornale con il primo cappuccino di questa giornata. È il mio momento preferito. L’icona di Skype balzella: «Cosa ci fai in piedi a quest’ora, tu che non devi lavorare?». Pro memoria urgente: togliere l’avvio automatico di Skype.

Confesso. Quando suona la sveglia non scatto in piedi come una lepre. Ma faccio lo sforzo perché adoro la mattina, il suo silenzio e il regalo che mi fa: due o tre ore di solitudine, di quella beata (salvo, appunto, balzellamenti di Skype). Sono le ore in cui i pensieri vanno più veloci, le parole arrivano con facilità e le idee della notte prendono forma concreta.

E se non ci sono parole da mettere in fila (o anche se ci sono) allungo la mano fino al cesto sotto al comodino e mi circondo delle parole degli altri, ricominciando da dove le ho lasciate la sera prima. Stamattina, per esempio, c’erano quelle asciutte di Herta Müller: «Lentamente oltrepassai il ponte, anche il fiume odorava di fumo. Pensai ai sassi e mi sembrava che il pensiero non fosse nella mia testa. Era fuori e mi passava accanto. Poteva allontanarsi da me lentamente o rapidamente come voleva, come dalle sbarre della ringhiera. Prima che il ponte s’interrompesse, volevo vedere se il fiume a quest’ora stava di fronte o di schiena*». Quindi, buon sabato mattina a tutti.

*Herta Müller, Il Paese delle prugne verdi, Keller editore, Rovereto, 2008.

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