valle_giordano

Linda e il suo mese al fianco dei palestinesi nei territori occupati della Cisgiordania

«Anna, ho una cosa da chiederti. Domani mattina sul prestino posso beccarti da qualche parte a Udine? Sarò molto rapida». È un messaggio inatteso quello che il 21 luglio ricevo da Linda (il nome è di fantasia). Ci conosciamo da anni, ma – per dire – prima d’ora non abbiamo mai preso un caffè assieme. Attivista per i diritti delle persone in movimento sulla rotta balcanica, Linda è uno dei miei “agganci” quando ho bisogno di raccogliere informazioni sulle situazioni di crisi umanitaria in regione o sulla rotta. A volte mi ha anche portata con sé mentre andava a distribuire cibo o a prestare cure mediche ai migranti costretti a dormire all’addiaccio, fuori accoglienza. C’è però anche un’altra causa che la abita e che la muove, per cui si spende in prima persona: la causa del popolo palestinese. E infatti è per questo che mi ha chiesto di vederci.

Di fronte a un caffè mi racconta che è in partenza per i territori occupati della Cisgiordania, starà via un mese con un’organizzazione internazionale, l’International Solidarity Movement. In quel mese farà “interposizione”: in buona sostanza proverà – in maniera del tutto pacifica – a ostacolare e rallentare le azioni dei coloni israeliani e dell’esercito miranti a occupare illegalmente nuovi territori palestinesi. Prima di partire però – su precisa indicazione dell’Ism – ha la necessità di costruire una rete di contatti di emergenza da attivare nel caso le succeda qualcosa: un arresto, un ferimento, un’espulsione. In quella rete serve anche una giornalista, è questa la cosa che Linda mi deve chiedere. Trascorrerò il mese successivo con il cellulare sempre acceso, anche di notte. Seguirò il suo “diario” quasi quotidiano su Telegram, mi preoccuperò quando, tra un messaggio e l’altro, il tempo sarà troppo. Soprattutto, proverò con lei rabbia profonda per l’ingiustizia che via via andrà documentando e ammirazione per la capacità di resistenza del popolo palestinese. In questo mese ci sarà un solo momento di allerta, per fortuna rientrato abbastanza in fretta. Linda è tornata a Udine da una decina di giorni.

Linda, negli ultimi dieci anni ti sei spesa molto per le persone in movimento sulla rotta balcanica, non solo qui in Friuli, ma anche in Serbia, Bosnia e perfino a Ventimiglia. Questa volta hai concentrato il tuo impegno per la Palestina, cosa ha fatto scattare questa decisione?

«La rotta balcanica e la Palestina sono due contesti molto diversi, ma accomunati dall’oppressione dell’uomo sull’uomo. Un’oppressione che lungo la rotta vede singole persone mettere in campo enormi capacità umane e personali, resistendo ai confini con i propri corpi. Quella del popolo palestinese è invece la lotta di comunità che hanno ancora un radicamento al territorio che permette di rispondere all’oppressione in maniera organizzata. Ho sentito il bisogno di andare in Palestina ovviamente per la situazione internazionale, ma anche per imparare nuovi metodi di resistenza, di speranza».

Il tuo impegno in questo mese non è stato solo documentare l’oppressione di Israele sul popolo palestinese, hai anche messo in gioco il tuo corpo, facendo “interposizione”, e il tuo essere europea.

«L’International Solidarity Movement è un’organizzazione internazionale a guida palestinese che fa perno sulle comunità locali, sono quindi i palestinesi stessi a dirci di cosa c’è bisogno. La presenza di noi “internazionali” ha come principale obiettivo quello di far valere il privilegio che deriva dall’avere un passaporto occidentale. La nostra è dunque una presenza solidale dentro le comunità che subiscono in misura maggiore gli attacchi dei coloni israeliani e dell’esercito. In sostanza si vive nelle comunità, nelle famiglie. E in accordo con le comunità e le famiglie, quando c’è un attacco, gli internazionali sono al fianco dei palestinesi nell’affronatre esercito e coloni in maniera pacifica e non violenta, nella speranza di riuscire a limitare la violenza che questi possono esercitare».

Tu dove hai operato?

«A nord della Valle del Giordano, in comunità molto organizzate. Il mio impegno è consistito nell’accompagnare pastori e agricoltori nelle loro attività quotidiane, vivere nelle loro case e nelle loro tende per provare a prevenire le incursioni, soprattutto notturne. Qui la repressione è fortissima, anche se altrove, penso a Masafer Yatta, la violenza è anche maggiore. Basti pensare che lì a fine luglio un colono ha ucciso a sangue freddo un attivista e maestro palestinese. Il colono è uscito di prigione ancor prima che Israele restituisse il corpo dell’attivista palestinese alla sua famiglia».

Prova a darci un’idea di quel che accade.

«Vivere in un contesto del genere fa cambiare tutto. Si comincia a stare attenti ad ogni rumore, soprattutto quello dei motori perché potrebbe trattarsi dell’arrivo dei coloni. Cambia il modo perfino di dormire, si resta vestiti e con le scarpe per essere pronti a reagire. Anche le relazioni cambiano, quella con l’esterno per esempio, prima di lasciare che i bambini giochino all’aperto si controlla che non ci sia nulla di strano. Succede che i coloni, anche ragazzini, arrivino con i quad e facciano finta di investire i bambini. C’è l’intimidazione, dunque i coloni che osservano gli animali al pascolo per far capire che prima o poi le pecore saranno loro, o le tubature dell’acqua per far immaginare un sabotaggio».

Gesti che non restano minacce, ma si concretizzano.

«Certo. Alle intimidazioni seguono atti di violenza fisica ben più cruda. Un ragazzo che ho conosciuto è stato accoltellato perché era accorso a difendere il fratello di 14 anni mentre subiva un attacco dai coloni. Solo un mese prima anche il padre era stato picchiato e derubato di 40 pecore. Poco prima del mio arrivo, nella stessa zona, nella notte i coloni ne avevano sgozzate 150. Parliamo di danni economici ingenti se pensiamo che il potere di acquisto dei palestinesi è bassissimo e una pecora costa tra 600 e 800 euro. Per non dire dello sradicamento di migliaia di ulivi, piante antichissime che testimoniano il radicamento del popolo palestinese in questi territori».

C’è poi una violenza istituzionale, la Valle del Giordano è, secondo gli accordi di Oslo, in “zona C”, dunque sotto il controllo civile e militare di Israele. Controllo che per altro doveva essere temporaneo (qui per saperne di più).

«Sì, è anche considerata area di interesse militare strategico, cosa che amplifica arbitrarietà e violenza. Non solo ci sono aree inaccessibili, ma le persone vengono spostate ad esempio con la scusa di esercitazioni. Qui per altro si “allenano” anche i soldati che compiono il massacro di Gaza. C’è poi il tema delle mine inesplose che restano sul terreno, nel mio mese in Cisgiordania ho vissuto anche in una famiglia il cui figlio, mentre portava le pecore al pascolo, è saltato su una di queste mine. Ovviamente nessun ristoro è stato concesso alla famiglia».

Hai detto di essere partita per la Cisgiordania anche per imparare, ecco, che cosa porti con te dell’umanità e dell’esperienza del popolo palestinese?

«Ho riscontrato una fortissima accettazione della realtà, qualcosa che permette di restare vivi e razionali all’interno di quella situazione. Al contempo un altrettanto forte senso di ribellione nei confronti dell’oppressione: a ogni violenza subita ho visto seguire un rapidissimo riorganizzarsi, non c’è spazio per l’avvilimento. E poi un’incredibile dimensione di cura».

In che senso, nelle relazioni?

«Resistenza e dignità portano a una certa durezza nell’atteggiamento, non potrebbe essere altrimenti. Poi però ho visto grande cura nelle relazioni. Sono mamma e nei momenti di sconforto mi trovo spesso in difficoltà a trasmettere serenità ai miei figli. Ecco, a fronte della durezza dovuta dall’oppressione, ho visto una grandissima dimensione di cura nei confronti dei bambini (che sono tantissimi), ma anche verso noi internazionali».

C’è stato un momento di crisi più marcata e anche tu sei stata dentro la violenza dell’esercito, lo puoi raccontare?

«Una sera, faceva già buio, abbiamo visto arrivare i quad. Il primo momento è stato di incertezza, non sapevamo se erano militari o coloni, i mezzi erano senza targhe. Abbiamo provato a interporci perché non entrassero, ma è stato inutile. Armati, hanno intimato agli uomini di mettersi in fila, le donne strappate dalla cucina sono state portate anch’esse nell’area comune senza nemmeno il tempo di indossare il velo. Hanno messo tutto a soqquadro e ci hanno detto che noi internazionali non potevamo restare lì. La stessa scena si è ripetuta la notte successiva, l’esercito è stato ancora più violento e ha minacciato la famiglia palestinese di ritorsioni se noi non fossimo andati via. Anche qui, una volta finita l’irruzione, la risposta è stata rapida, sono accorsi i vicini, i parenti della famiglia, altri attivisti internazionali e palestinesi, paramedici, il coordinamento di comunità. Tutti insieme hanno deciso che dovevamo restare. Per dieci giorni la presenza è stata massiva. Per fortuna l’esercito non è tornato».

Che ricordo hai di quelle notti?

«Di grande spavento, ma anche di grande bellezza nello stare insieme, nella consapevolezza che potevamo resistere. Notti anche di balli, di danza e di ritmo».

Pubblicato sul settimanale diocesano di Udine il 17 settembre 2025.

Leave A Comment?


9 × quattro =