Cimitero di Bijeljina

In Bosnia con Ospiti in Arrivo | Prima parte | I morti senza nome sulla “rotta balcanica”

A inizio maggio sono stata in Bosnia, prendendo parte a una missione di Ospiti in Arrivo (a cui va, come sempre, la mia gratitudine più profonda) con destinazione Tuzla. Da lì, l’attivista Nihad Suljić ci ha accompagnati lungo la Drina, nel territorio in cui, nel 1992, iniziò la pulizia etnica. Questo stesso territorio è parte della geografia in cui si consuma il dramma delle persone che – in movimento lungo la rotta balcanica – muoiono a causa della violenta politica di militarizzazione dei confini. Insieme a Nihad (il cui impegno è preziosissimo) abbiamo visitato i cimiteri dove sono sepolti questi uomini e queste donne, annegati nella Drina, ma anche i luoghi del genocidio, i memoriali di cui è disseminata la Bosnia orientale, ascoltando le testimonianze delle persone impegnate nel fare memoria, ma anche (e non è un caso) nell’aiuto a quanti e quante percorrono la rotta balcanica. Ne è uscito un reportage in due parti: qui di seguito trovate la prima parte (in fondo la galleria fotografica), a questo link, invece, la seconda. 

I morti senza nome lungo la “rotta balcanica”

È un angolo appartato, uno spazio tenuto ben distinto dal resto dell’ampio cimitero. Le tombe, qui confinate, sono poco più di venti. Piccole lapidi scure che danno conto di chi è morto inseguendo un sogno: entrare in Europa e provare a rifarsi una vita lontano da guerre, violenze e miseria. Di queste persone ci è dato sapere pochissimo, l’anno di morte appena. La sigla “NN” – “no name” – testimonia che di loro, insieme alla vita, è andato perso perfino il nome. Siamo a Bijeljina, nel nordest della Bosnia ed Erzegovina. A sei chilometri scorre la Drina, il fiume raccontato da Ivo Andrić e che segna il confine con la Serbia. È nelle sue acque che sono morte queste persone: migranti che stavano percorrendo la “rotta balcanica”, provenienti sopratutto da Siria e Afghanistan.
«Provano a passare il confine attraversando la Drina. A volte a nuoto, a volte con piccole imbarcazioni messe a disposizione, a poco prezzo, dai trafficanti. Ma il fiume è profondo, la corrente fortissima ed è facile morire annegati. I corpi vengono ritrovati anche a distanza di mesi». A raccontare, dopo essersi brevemente raccolto in preghiera di fronte alle lapidi, è Nihad Suljić, attivista che opera a Tuzla, la prima grande città bosniaca dopo il confine con la Serbia. Il suo impegno per le persone migranti è iniziato sette anni fa, quando la città divenne uno degli snodi principali della rotta balcanica. «Da un momento all’altro il flusso di persone si fece imponente – racconta –. Ci trovammo davanti uomini e donne che erano in cammino da mesi e non avevano nulla. Le istituzioni erano completamente impreparate. Ho sentito di dover fare qualcosa, mi sono messo così a distribuire cibo e vestiti alla stazione degli autobus. Un po’ alla volta, attorno a me si è creata una rete di persone, soprattutto donne, mosse dal desiderio di restituire dignità ai migranti». Una dinamica “dal basso”, questa, che caratterizza tutte le rotte migratorie e che si innesta in una più ampia rete internazionale di solidali che tiene insieme associazioni, collettivi e movimenti, anche diversissimi tra loro.

Oggi la situazione è cambiata. A Tuzla i migranti sono pochi, da una parte perché i numeri della rotta balcanica sono in calo, dall’altra perché la militarizzazione dei confini dell’Ue ha fatto aumentare il ricorso ai trafficanti, rendendo le persone in movimento meno visibili e più vulnerabili. L’impegno di Suljić non è venuto meno, ma si è in parte trasformato. È infatti tra le poche persone che le famiglie dei migranti possono contattare quando perdono le tracce dei propri cari. «È iniziato tutto per caso, due anni fa – racconta –. Mi telefonò dalla Francia un ragazzo afghano che avevo conosciuto proprio a Tuzla, qualche anno prima. Mi chiedeva aiuto perché stava cercando un giovane del suo villaggio che era scomparso in questa zona». Suljić fa allora girare la foto del giovane disperso, dopo pochi giorni viene contattato dalla Protezione Civile: il corpo era stato ritrovato privo di vita nel fiume. «Quando sono arrivato all’obitorio è stato difficile spiegare la mia posizione ai medici e alla polizia. Non faccio parte di un’istituzione e non sono un familiare». Ma Suljić insiste e – attraverso una videochiamata con la famiglia, alla presenza delle autorità – riesce ad effettuare il riconoscimento ufficiale. «Da allora capita spesso che mi chiamino per casi simili». E mentre lo dice estrae dallo zaino una cartellina piena di foto, alcune sono di ragazzi scomparsi, altre dei corpi ritrovati nella Drina. Guardarle è straziante. Impossibile non pensare che per ognuno di loro c’è una famiglia in attesa di notizie. E di ognuno Suljić ci racconta la storia che è riuscito a ricostruire, lo fa come fossero persone conosciute, persone care.

Identificare le vittime

«L’obiettivo – spiega ancora – è provare a identificare le vittime, ma è difficile. Spesso i corpi vengono sepolti velocemente, soprattutto quando vengono ritrovati in Serbia. Manca poi un database del dna, ci stiamo battendo perché venga realizzato. Qui in Bosnia sappiamo per esperienza quanto sia importante, ci ha consentito di identificare i corpi di migliaia di vittime della pulizia etnica degli anni Novanta (ne scrivo a questi link). Molte famiglie poi vorrebbero venire di persona, ma non possono ottenere il visto o non hanno la disponibilità economica per affrontare il viaggio».

Una sepoltura dignitosa

Intanto, progressivamente, si sta garantendo ai morti una sepoltura dignitosa. «All’inizio sulle tombe c’era solo un paletto di legno, ma un po’ alla volta, anche grazie alla generosità di tante persone, li stiamo sostituendo con piccole lapidi di marmo. È importante che, anche se privo di nome, resti un segno del passaggio di queste persone sul territorio: non deve essere dimenticato che sono morte “di confine”, tenute ai margini dall’Europa con la violenza».
Visitiamo anche altri cimiteri, a Tuzla e a Zvornich. Ovunque ci sono tombe senza nome. Con qualche eccezione. A Loznica, in Serbia, ci raccogliamo attorno a tre lapidi di legno che i nomi li hanno. Due sono vicinissime. «Sono madre e figlia sepolte insieme – spiega Suljić –, la bambina si chiamava Lana e aveva nove mesi, la sua mamma, Khadijah, vent’anni. La tomba accanto è del papà, Ahmed, 24 anni». Sono tre delle undici vittime dell’incidente più grave avvenuto sulla Drina, nell’agosto del 2024 quando, di notte, si ribaltò un barchino che stava traportando un gruppo di profughi siriani. Khadijah e Ahmed avevano anche altri due figli: sono sopravvissuti e ora vivono in un orfanotrofio a Belgrado.

I numeri di Missing Migrants

Dei morti lungo le rotte migratorie si parla raramente, solo in occasione di tragedie, come quella di Cutro, nel 2023. Eppure, lo stillicidio è quotidiano. Nel 2014 l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni ha avviato un progetto di monitoraggio, il Missing Migrants Project. I suoi numeri sono chiari, morti e dispersi aumentano, nel 2024 il picco più alto: le vittime, sulle rotte di tutto il mondo, sono state 9.191. In Europa almeno 237. E proprio i fiumi restano una trappola mortale, non solo la Drina, ma anche la Sava, tra Croazia e Bosnia, l’Evros, tra Grecia e Turchia. Nel 2021 una bambina curda di 10 anni morì a due passi da Trieste, nel fiume Dragogna, mentre, insieme a sua madre, stava provando a entrare in Slovenia dalla Croazia (ne scrivevo qui).

A Trieste

Intanto nomi e volti delle persone scomparse si rincorrono fino a Trieste. In piazza della Libertà – dove i volontari di «Linea d’ombra» danno le prime cure a chi è appena arrivato dalla rotta balcanica – ci sono anche le foto delle persone di cui non si hanno più notizie. «Spesso nell’attesa del pasto che ogni sera viene distribuito – spiega Ismail Swati, mediatore culturale –, le persone si scambiano informazioni proprio su chi hanno incontrato lungo la rotta, anche facendo da tramite con le famiglie che non sanno dove i loro cari si siano persi».
Anna Piuzzi

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