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Da Topolò a Oslavia si torna a respirare

IMG_6647Nel raccontare, la sua voce si illumina, sorridendo: «Sabato mattina sono subito andato a Drežnica. Ho fatto una bella camminata lungo l’Isonzo e poi mi sono mangiato un burek a Caporetto. Insomma, ho compiuto tutti quei rituali che in questi mesi mi erano mancati davvero tantissimo, in luoghi che per me sono del cuore». Il sabato in questione è il 13 giugno di questo ben strano 2020 in cui mai avremmo pensato di dover di nuovo attendere con ansia la riapertura del confine tra Italia e Slovenia, rimasto chiuso per mesi durante il lockdown dovuto alla pandemia di Covid-19. Siamo a Topolò, nel cuore della Benecia, e a raccontare è uno dei suoi 21 abitanti, Moreno Miorelli (qui a destra), anima – insieme a Antonella Bukovaz e Donatella Ruttar – di quello straordinario laboratorio di frontiera che da anni è appunto il festival «Stazione di Topolò/Postaja Topolove». «Iniziammo nel 1994 – ricorda Miorelli – con la camminata transfrontaliera “oltre la linea immaginaria”, fino a Livek. Allora bisognava comunicare preventivamente chi avrebbe partecipato e, al confine, la polizia controllava che le persone che lo stavano attraversando fossero tutte rigorosamente indicate nell’elenco. Parecchi anni dopo il confine è finalmente caduto e a lui ci siamo presto disabituati. Vederlo ri-materializzarsi all’improvviso è stato uno shock». Il valico più vicino a Topolò è quello di Polava e quando, l’11 marzo, fu chiuso in fretta e furia con pesanti massi, le immagini fecero immediatamente il giro del web destando grande impressione. «Devo dire – continua – che, almeno qui in paese e nei dintorni, la misura è stata accettata. Non è stata presa quasi fosse “uno schiaffo”, come, al contrario, si è letto sui social, si è compreso che l’emergenza sanitaria qui in Italia era pesante e la Slovenia aveva conseguentemente cercato di tutelare i propri cittadini. Certamente è stata un’esperienza che deve farci tenere bene a mente che nulla va dato per scontato, soprattutto conquiste fondamentali come la caduta del confine». Intanto, Covid-19 permettendo, la manifestazione estiva si farà, è stata solo fatta slittare dal mese di luglio ad agosto, si svolgerà infatti dal 28 agosto al 13 settembre. Un evento nel segno della resistenza culturale, prezioso e vitale per questo piccolo borgo che proprio grazie a «Stazione di Topolò» negli ultimi tempi ha attratto nuovi abitanti, tutti giovani, innamoratisi di questa realtà. «Grazie a loro – commenta ancora Miorelli – il lockdown, è stato più leggero. In poco tempo siamo passati da 14 a 21 abitanti, si tratta di cinque giovani e due bambini, a riprova che la cultura può essere la carta vincente di una “montagna povera” come quella delle Valli».

Mettere radici ad Azzida

IMG_6650A una ventina di chilometri da Topolò, il silenzioso borgo d’Antro, nel Comune di Pulfero, si affaccia sul dolce fondovalle attraversato dal Natisone. Ha vissuto qui, a pochi passi dal confine, Letizia Banchig (qui a destra insieme al marito), fino a 19 anni, poi il trasferimento per gli studi cui sono seguite diverse esperienze anche all’estero, fino in Nepal. Di mezzo il matrimonio con Priel, israeliano, e la nascita dei loro due bimbi che oggi hanno 8 e 4 anni. E infine il ritorno, dopo 20 anni, nelle Valli del Natisone, precisamente ad Azzida, nel Comune di San Pietro del Natisone, un piccolo paese antico costruito sopra uno sperone che domina l’ingresso della Val Savogna e di San Leonardo.
«È stata una decisione consapevole – racconta –, ho scelto di tornare da dove ero partita. Ho girato tanto. Mio marito e io abbiamo vissuto prima a Udine, poi a Cividale, ma restava dentro di noi una domanda forte: quali radici dare ai nostri figli? E allora, siccome riteniamo fondamentale l’identità linguistica e culturale, abbiamo scelto le Valli. Azzida in particolare perché i bambini potessero frequentare la scuola bilingue di San Pietro, la convivenza di italiano e sloveno è un tratto distintivo di questa terra che ha saputo cancellare un confine. Ho nel cuore il ricordo di quella notte del 2007 in cui le frontiere cessarono di esistere e andammo in Slovenia pieni di gioia e senza bisogno dei documenti. Fu una sensazione di profonda libertà che rivivo ogni volta che attraverso idealmente la frontiera con mio marito, so infatti che per lui non dover passare mille controlli, come succede invece in Israele, è una liberazione. È anche per questo che siamo venuti ad abitare qui. Quando abbiamo appreso la notizia della chiusura della frontiera, seppur contingente e dovuta a motivi sanitari, ci ha assalito un senso fortissimo di claustrofobia. Io ad esempio mi sono rifiutata di andare a vedere il confine. Guardavo il Monte Nero da lontano, aspettando con trepidazione la giornata di oggi».

Collaborazione a Oslavia


IMG_6648E il confine corre giù, dalle asperità di questa zona di montagna, fino alla dolcezza delle colline del Collio. Scendiamo così ad Oslavia, frazione di Gorizia, per la precisione a Lenzuolo Bianco, località a ridosso del confine che deve il suo nome all’unica parete intonacata di bianco che, durante la Prima Guerra mondiale, restò in piedi nonostante i bombardamenti dal Monte Sabotino: da lontano, appunto, pareva un lenzuolo bianco. Qui nasce il vino – pregiatissimo – di Josko Gravner, fatto maturare nelle anfore di terracotta provenienti dal Caucaso. A raccontarci il ritorno alla normalità è sua figlia, Mateja Gravner (qui a destra). «L’idea che la frontiera di colpo fosse stata chiusa è stato shoccante – spiega –, perché ormai qui i confini ce li siamo tolti dalla testa. Va detto che li abbiamo sempre vissuti in modo abbastanza libero, dovevamo avere la “propusnica”, il “lasciapassare”, ma comunque li attraversavamo abbastanza agevolmente, conoscevamo gli orari, sapevamo come comportarci. Anche rispetto ai servizi, ne fruivamo da una parte o dall’altra in base a dove ritenevamo fossero migliori, ad esempio mia nipote frequentava le lezioni di danza “dall’altra parte”, quelle di musica a Gorizia. Doverci riconfrontare con qualcosa che avevamo archiviato è stato disorientante».
Difficoltà nella difficoltà i vigneti Gravner si estendono sia in Italia che in Slovenia, a Brda. «Per noi – continua Mateja – il confine non è mai stato nominalmente chiuso, abbiamo avuto la massima collaborazione da parte della Slovenia che è stata pronta ed efficace nel rispondere alle nostre richieste, chiedendo in cambio da parte nostra la massima responsabilità. Insomma, pur nello smarrimento iniziale la situazione è stata affrontata insieme e per quello che era, una chiusura dettata dall’emergenza».
«Insieme» è dunque ancora una volta la parola chiave. E ora la situazione qual è? «È vivo il desiderio di un ritorno alla normalità. “Di là” ci rimpiangono tanto e non è solo per una questione economica. Certo, portiamo una bella fetta di fatturato, ma nel tempo si sono create relazioni autentiche, ora che stiamo superando quella fase in cui la paura era la quotidianità, cominciano a mancarci le persone, sentiamo forte la distanza. Non è un caso che da quando, due settimane fa, è stata ripristinata la possibilità per gli sloveni di entrare in Italia, questi abbiano “invaso”, in senso positivo naturalmente, i locali di Gorizia e Cormons. Diciamo che c’è solo qualche piccola difficoltà con le regole che sono diverse, in Slovenia, ad esempio, la mascherina non si usa più, qui invece sì, ma son tutte piccole questioni risolvibili. L’importante è essersi riappropriati dell’impagabile libertà di abitare un territorio senza doversi fermare davanti un valico, è una conquista a cui non possiamo rinunciare e di cui non dobbiamo dimenticare il valore».
Anna Piuzzi

Nella foto in alto (tratta dal profilo Flickr di di Alessandra Del Gos) una veduta di Topolò.

Articolo pubblicato sul settimanale diocesano di udine «La Vita Cattolica» del 17 giugno 2020.

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